Donna e Impresa – La Donna che non rischia

  • 2 anni fa
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Ultimamente ho letto un articolo sul Sole 24 Ore che individua tra le possibili cause della diminuzione dell’imprenditoria femminile negli anni del Covid, anche una ipotetica scarsa propensione al rischio della donna. Addirittura si tira in ballo la differenza biologica rispetto all’uomo, che nel testosterone avrebbe un alleato che aumenta la competitività, riduce la paura e favorisce la propensione al rischio.

Ora non voglio indossare i panni della femminista militante, perché non mi appartengono. Voglio però sottolineare un’evidenza, senza neanche fare confronti con la Finlandia, con la Svizzera o con paesi molto più evoluti del nostro, ma semplicemente constatando la realtà.

L’Italia è un paese che culturalmente celebra la donna in quanto mamma e angelo del focolare, ma la sottostima e la scoraggia appena si avvicina a posizioni di potere. Nelle discussioni da bar le donne italiane nel mondo sono bellissime, elegantissime, difficilmente vengono menzionate per l’intelligenza e la professionalità. L’idea di una donna imprenditrice fa subito sorridere l’uomo medio italiano, che la immagina in improbabili situazioni a districarsi tra un biberon ed un telefono.

In questo scenario culturale, diventa un enorme sforzo mentale e sociale per la donna proiettarsi ad una carriera che sia alternativa all’insegnamento o a ruoli di segreteria o nel commercio.

Secondo le ultime statistiche è vero che le donne imprenditrici sono molte di meno rispetto agli uomini (in rapporto di 1 a 5), ma la maggior parte sono alla prima esperienza (il 94%) e cercano nell’impresa la flessibilità sul lavoro e l’autonomia che non possono avere dal lavoro dipendente.

Inoltre i dati post-covid raccontano che le aziende guidate da donne in Italia hanno reagito in modo più pronto alla ripresa perché più organizzate.

Secondo la mia esperienza, soprattutto qui nel Meridione, una donna che “tenta l’impresa” viene attesa al varco da chi si aspetta che fallisca e questo crea una serie di tensioni, ansie e apprensioni che rendono ancor più grande la paura di non farcela. Nel sentire comune, il fallimento di un imprenditore uomo è percepito come un passo falso in un percorso che non pregiudica il suo successo (anzi, a volte, lo facilita). Una donna che fallisce, invece, è un’altra che ha provato a “ribellarsi” alla sua condizione di madre e moglie ma è stata rimessa al suo posto.

Il motivo è prima di tutto culturale, ma anche sul piano istituzionale il divario di genere viene favorito dalla mancanza di un sistema di welfare che riesca a supportare le donne, agevolandole per esempio nella gestione dei bambini (vedi la questione asili nido). Al di là della questione imprenditoria, già l’indipendenza economica delle donne sarebbe una leva importante per cambiare lo status quo. E sarebbe utile a tutto il Paese! La Banca d’Italia ha calcolato che, se l’Italia riuscisse a raggiungere l’obiettivo di Lisbona dell’occupazione femminile al 60%, il PIL italiano crescerebbe del 7%.

La verità è che abbiamo noi tutte ricevuto l’indicazione precisa, dalla società, da nostra madre, dai media, che il nostro cuore deve rimanere a casa: devozione alla famiglia, al marito, cura della casa, massimo impegno nel ruolo di madre e moglie. Invece il cuore va messo anche nel lavoro, che restituisce all’ennesima potenza soddisfazioni, crescita individuale e status sociale.

Certo, deve essere un lavoro che piace, che gratifica, ma che allo stesso tempo lascia libertà di movimento invece di ingabbiare con altri vincoli.

Come il consulente immobiliare Re/Max Arteka!

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